Programma Educazione alla Pace presentato da Tindara Ignazzitto - Consulta per la Pace di Palermo

Programma di Educazione alla Pace - TPRF

martedì 4 agosto 2009

Respingimenti collettivi di migranti in Libia

Respingimenti collettivi di migranti in Libia

Fulvio Vassallo Paleologo Università di Palermo

[30 Luglio 2009]

Dopo una giornata convulsa caratterizzata da trattative segrete tra i governi maltese, libico ed italiano, sono stati respinti in Libia 14 migranti soccorsi in acque internazionali rientranti nella zona SAR [salvataggio e soccorso] maltese, a 35 miglia a sud di Lampedusa. I naufraghi, tra i quali due donne ed un minore, si trovavano su un gommone alla deriva nel Canale di Sicilia raggiunto da un peschereccio di Mazara del Vallo che è stato costretto dalle autorità maltesi a restare per ore a fianco del gommone, senza prendere a bordo nessuno, in attesa che arrivassero gli ordini dei governi ed i militari [una motovedetta della guardia di finanza italiana] ai quali era stato impartito il comando di ricondurre tutti i migranti in Libia. Come riferisce il giornale La Repubblica i migranti «erano rimasti senza benzina», secondo il racconto di Nicolò Russo, comandante del peschereccio Florio. «Erano stremati. Gli abbiamo dato acqua e cibo». Evidentemente i migranti erano stremati ma non tanto da consigliare ai militari della guardia di finanza il rispetto delle più elementari norme di umanità, oltre che delle regole di comportamento e dei doveri di salvataggio imposti dalla normativa italiana e dal diritto internazionale e comunitario.
Come riferisce La Repubblica infatti, dopo un’attesa di ore al largo della costa di Lampedusa, le autorità marittime italiane hanno deciso di applicare ai migranti il cosiddetto «respingimento» e hanno ordinato al comandante di una motovedetta della Guardia di finanza di far rotta verso la costa libica con i naufraghi a bordo. Giunti in prossimità delle acque nazionali libiche, a circa 12 miglia dalla costa, i migranti sarebbero stati «consegnati» dall’unità della guardia di finanza ad una delle motovedette ad equipaggio misto con bandiera libica, cedute dall’Italia alla Libia, lo scorso mese di maggio. Si può ritenere che dopo l’arrivo in porto gli stessi migranti siano stati consegnati al ministero dell’interno libico, sottoposti ad interrogatorio ed internati in un centro di detenzione.
Le testimonianze raccolte anche dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati sui maltrattamenti subiti dai migranti a bordo delle unità militari italiane durante il viaggio di rientro verso Tripoli, e poi da parte dei poliziotti libici, fanno presagire il peggio, mentre la comunità internazionale, e soprattutto l’Italia, sembrano incapaci di imporre a Gheddafi il rispetto dei diritti umani dei migranti in transito o respinti in Libia. Evidentemente gli stati europei, che partecipano alle missioni di FRONTEX, e l’Italia in particolare,non garantiscono tali diritti neppure nel territorio sul quale esercitano poteri sovrani, come vanno qualificate le unità militari battenti bandiera italiana in acque internazionali, se ordinano ai comandanti delle navi impegnate nel «contrasto dell’immigrazione clandestina» comportamenti che sono in aperta violazione di tutte le regole del diritto interno, del diritto comunitario e del diritto internazionale.
Quanto è avvenuto in questi giorni è frutto degli accordi che sono stati conclusi dal governo Prodi con il governo libico nel dicembre del 2007 [Protocolli operativi per il pattugliamento congiunto a mare e per il controllo delle frontiere meridionali della Libia] e dal governo Berlusconi nel mese di agosto del 2008 [Trattato di amicizia italo-libico], allo scopo di bloccare l’emigrazione verso le isole siciliane, lasciando alla marina maltese il compito di «organizzare» i soccorsi nella vastissima zona SAR che per ragioni economiche rimane ancora attribuita a Malta, con una estensione che va dalle acque internazionali antistanti la Tunisia a quelle antistanti la Libia.
A nessuno sembra importare la sorte dei potenziali richiedenti asilo, oltre il 75 per cento di coloro che sono sbarcati lo scorso anno a Lampedusa avevano presentato una istanza di protezione internazionale, delle donne, vittime di violenza in Libia e dei minori non accompagnati vittime di un traffico frutto delle politiche proibizioniste dei governi europei. L’attenzione generale sembra rivolta verso il progetto di esternalizzazione delle domande di asilo, nel quale si vorrebbe coinvolgere anche l’UNHCR, ed in questa direzione è già in programma una missione in Libia del Commissario europeo Barrot, sembrerebbe accompagnato dal più alto esponente dell’UNHCR Gutierrez.
Il comportamento seguito in questa ultima occasione dalla Guardia di Finanza, evidentemente su direttiva del ministero dell’interno, appare censurabile innanzitutto alla luce del Decreto 14 luglio 2003, tuttora in vigore, con il quale si stabilivano le regole di ingaggio delle unità militari navali coinvolte nelle operazioni di contrasto dell’immigrazione clandestina.
Il decreto ministeriale attuava gli articoli 11 e 12, commi 9-bis e seguenti del testo unico 286 del 1998 [come modificato dalla legge Bossi-Fini del 2002], rispettivamente in materia di potenziamento e coordinamento dei controlli sulla frontiera marittima e terrestre e in materia di fermo, ispezione e sequestro delle navi adibite o coinvolte nel traffico illecito di migranti.
Secondo l’art.1 di questo decreto, «ferme restando le competenze stabilite dall’art. 11, comma 3, del testo unico, il raccordo degli interventi operativi in mare e i compiti di acquisizione ed analisi delle informazioni connesse alle attività del comma 1 sono svolti dalla Direzione centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere del Dipartimento della pubblica sicurezza, di seguito denominata Direzione centrale».
Secondo lo stesso decreto «la Direzione centrale esamina con immediatezza gli interventi da effettuare anche sulla base di accordi di riammissione e di intese conseguite con il Paese del quale il natante batte bandiera o da cui risulta partito, nonché gli interventi da effettuare su natanti privi di bandiera e dei quali non si conosce il porto di partenza». Le attività previste dal presente decreto sono svolte «tramite il dispositivo aeronavale della Marina militare, della Guardia di finanza, del Corpo delle capitanerie di porto e delle altre unità navali o aeree in servizio di polizia. L’intervento si estrinseca nell’esercizio dei poteri di polizia dell’alto mare diretti al monitoraggio, alla sorveglianza, all’individuazione, al controllo degli obiettivi navali in navigazione ed all’accertamento dei flussi migratori clandestini».Il decreto firmato da Pisanu nel 2003 precisa poi che «restano immutate le competenze del Corpo delle capitanerie di porto per quanto riguarda la salvaguardia della vita umana in mare. Nell’espletamento di tali attività le situazioni che dovessero presentare aspetti connessi con l’immigrazione clandestina, ferma restando la pronta adozione degli interventi di soccorso, devono essere immediatamente portate a conoscenza della Direzione centrale e dei comandi responsabili del coordinamento dell’attività di contrasto all’immigrazione clandestina indicati agli articoli 4 e 5».
Le attività delle unità militari italiane in mare «possono assumere il carattere di: a) sorveglianza; b) intervento di soccorso, il cui coordinamento e’ di competenza del Corpo delle capitanerie di porto; c) intervento di polizia, la cui competenza e’ attribuita, in via prioritaria, alle Forze di polizia secondo i piani regionali di coordinata vigilanza nella acque territoriali ed interne e alle Forze armate e di polizia secondo quanto indicato al successivo art. 4 per le acque internazionali.
Gli interventi di soccorso e di polizia possono essere concomitanti». Non si vede dunque quale sia la base giuridica che consente ai mezzi della marina militare ed adesso della guardia di finanza, di eseguire respingimenti collettivi verso un paese che non è neppure firmatario della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, e che viola sistematicamente tutte le convenzioni internazionali sui diritti umani e sulla condizione delle donne e dei minori.
Il decreto ministeriale del 2003 è assai preciso nel definire le attività che le navi militari italiane possono compiere in acque internazionali.

In base all’art. 5. [Attività in acque internazionali]

1. Ai fini della prevenzione e del contrasto del traffico illecito di migranti in acque internazionali è assicurata una costante attività di sorveglianza finalizzata alla localizzazione, alla identificazione e al tracciamento di natanti sospettati di traffico di clandestini.
2. L’attività di identificazione è svolta prevalentemente con il concorso dei mezzi aerei assegnati e cooperanti al fine di ottenere la situazione di superficie dell’area di competenza.
3. La fase di tracciamento deve essere condotta, compatibilmente con la situazione contingente e con i sensori disponibili, in forma occulta al fine di non vanificare l’intervento repressivo nei confronti delle organizzazioni criminali che gestiscono l’illecito traffico.
4. In considerazione dell’area interessata alle operazioni e del potenziale informativo disponibile da parte degli assetti aeronavali, ed al fine di rispettare i criteri di efficienza, efficacia ed economicità dell’impiego, il Comando in capo della squadra navale [CINCNAV] svolge la necessaria azione di raccordo delle fasi di pianificazione dell’attività di cui al comma 1, in stretta cooperazione con il Comando generale della Guardia di finanza [CENOP] e con il Comando generale delle Capitanerie di porto [centrale operativa].
5. Nella fase esecutiva ciascuna amministrazione/ente è responsabile dell’emanazione delle direttive attuative ai mezzi dipendenti, tenendo debitamente informati gli altri. Le unità della Marina militare, per le specifiche caratteristiche e capacità dei sistemi di comunicazione di cui dispongono, assumono il coordinamento operativo nei casi in cui mezzi di diverse amministrazioni si trovino ad operare sulla medesima scena d’azione. La Marina militare -CINCNAV riceve, tramite le strutture di comando e direzione delle amministrazioni di appartenenza, i rapporti delle unità impiegate, dirama ai mezzi coinvolti sulla scena d’azione le modalità di dettaglio e le direttive di intervento ed affida gli obiettivi specifici. In tale contesto, i mezzi aeronavali delle Forze di polizia e delle Capitanerie di porto che operano nella stessa area e con le stesse missioni, devono stabilire collegamenti radio con le unità della Marina militare.
Secondo l’art.7 del decreto 14 luglio 2003 «nell’assolvimento del compito assegnato l’azione di contrasto à sempre improntata alla salvaguardia della vita umana ed al rispetto della dignità della persona».

Di particolare importanza quanto previsto da questa stessa norma secondo la quale [comma 2] «su conformi direttive della Direzione centrale le unità navali …………………..procedono, ove ne ricorrano i presupposti, all’effettuazione dell’inchiesta di bandiera, alla visita a bordo, qualora sussista un’adeguata cornice di sicurezza, ed al fermo delle navi sospettate di essere utilizzate nel trasporto di migranti clandestini, anche al fine di un loro possibile rinvio nei porti di provenienza». E ancora secondo la stessa norma, «fermo restando quanto previsto dal comma 1 del presente articolo, ove si renda necessario l’uso della forza, l’intensità, la durata e l’estensione della risposta devono essere proporzionate all’intensità dell’offesa, all’attualità e all’effettività della minaccia». Il contrasto a mare dell’immigrazione clandestina previsto dalla normativa italiana prevede soltanto la ipotesi del «rinvio nei porti di provenienza delle imbarcazioni cariche di migranti» e non il trasbordo forzato o la traduzione [o la deportazione] dei migranti soccorsi in acque internazionali in porti di paesi dai quali in ipotesi potrebbero anche non essere mai transitati.
Nessuna disposizione del decreto ministeriale 14 luglio 2003, firmato dal ministro dell’interno pro-tempore Pisanu, autorizza dunque la «riconsegna» di naufraghi o di migranti, comunque soccorsi da unità militari italiani in acque internazionali, ad unità battenti bandiera libica, o peggio la riconduzione di queste stesse persone in un porto libico, come è avvenuto a partire dal 7 maggio scorso.
L’art. 10 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998, prevede poi al comma secondo il «respingimento differito» da chi sia stato ammesso nel territorio nazionale per motivi di soccorso, sempre che non operi una delle cause di non respingimento dettate da Convenzioni internazionali o dall’art. 19 del Testo Unico sull’immigrazione, che vieta espressamente il respingimento di chi proponga una istanza di protezione internazionale, di chi sia minore, delle donne che versano in stato di gravidanza e di tutti coloro che potrebbero essere allontanati verso un paese nel quale rischiano di subire trattamenti inumani o degradanti [come il caso documentato della Libia].
Diverse associazioni, tra le quali l’ASGI, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, avevano inoltrato una circostanziata denuncia alla Commissione Europea, al Comitato ONU per i diritti umani, al Commissario Europeo per i diritti umani presso il Consiglio d’Europa, a seguito dei respingimenti collettivi effettuati dall’ Italia verso la Libia a partire dal 6 maggio 2009.
Riportiamo di seguito alcuni dei punti più importanti della denuncia presentata dall’ASGI e da altre associazioni perché le stesse censure si possono rivolgere ancora oggi all’operato della guardia di finanza che, su ordine del ministero dell’interno italiano, ha riconsegnato ad una motovedetta a bandiera libica, ed a equipaggio misto, libico ed italiano, 14 migranti tra i quali due donne ed un minore, che sono stati ricondotti a Tripoli, e si trovano adesso in stato di detenzione.
Nella denuncia presentata dall’ASGI, e da altre associazioni, si ricorda come «il giorno 7 maggio 2009, 227 persone [40 donne di cui 3 incinte] a bordo di 3 barconi sono state soccorse in zona SAR maltese da motovedette italiane, a 35 miglia marittime dall’isola di Lampedusa. Per quanto è dato sapere, a seguito di accordi con la Libia, i comandanti di alcune navi militari italiane hanno accolto a bordo tutti i migranti per poi riportarli immediatamente in Libia, ove sono stati consegnati alle autorità libiche. L’8 maggio è avvenuto un secondo respingimento dopo che un rimorchiatore italiano in servizio su una piattaforma dell’ENI ha intercettato un barcone con 77 persone e lo ha riportato in Libia.
Analoghe operazioni sono state compiute anche nei giorni successivi, come affermato agli organi di stampa dal Ministro dell’interno italiano, il quale, al 10 maggio, indica in circa 500 i migranti riconsegnati alla Libia, qualificando gli episodi come «risultato storico».
Come risulta dal sito
www.fortresseurope.blogpsot.com, in un mese e mezzo sarebbero oltre 1.100 i migranti respinti dalle unità militari italiane verso il confine delle acque territoriali libiche e lì presi in consegna da unità battenti bandiera libica, come le motovedette donate dall’Italia alla Libia nel maggio del 2009.
Nessuna delle persone trasportate in Libia è stata ufficialmente identificata, e questa è la prassi costante dei respingimenti in acque internazionali verso la Libia, decisi dal governo italiano a partire dal mese di maggio del 2009, né è stata rilevata la nazionalità, la minore età, lo stato di gravidanza delle donne, le condizioni di salute dei migranti, né verificate eventuali richieste di protezione internazionale. Allora come nell’ultimo caso verificatosi ieri si è trattato di respingimenti collettivi vietati da tutte le convenzioni internazionali.
Operatori umanitari e giornalisti hanno raccolto numerose testimonianze su tali episodi consultabili sui siti di Migreurop [Parigi], di Picum [Bruxelles], di Borderline Europe [Berlino] e di Fortress Europe [Roma]; testimonianze confermate anche da rapporti di agenzie internazionali come Amnesty International e Human Rights Watch [HRW]. Immagini video agghiaccianti sul respingimento verso Tripoli effettuato il 7 maggio scorso da una nave della marina militare italiana sono state diffuse da due giornalisti francesi e sono facilmente reperibili su internet.
L’UNHCR ha ripetutamente espresso forte preoccupazione al Governo italiano per gli avvenimenti sopra riportati ritenendo che le operazioni messe in atto dal Governo italiano siano «in contrasto con il principio del non respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951, che trova applicazione anche in acque internazionali. Questo fondamentale principio, che non conosce limitazione geografica, è contenuto anche nella normativa europea e nell’ordinamento giuridico italiano. Confermando che fra coloro che sono stati rinviati in Libia vi sono persone bisognose di protezione, l’UNHCR ha reiterato la richiesta al governo affinché riammetta queste persone sul proprio territorio sottolineando che, dal punto di vista del diritto internazionale, l’Italia è responsabile per le conseguenze del respingimento» [UNHCR – comunicato stampa 15 maggio 09].
Come ricorda l’ASGI nel suo esposto denuncia, «la Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, il Patto internazionale sui diritti civili e politici proibiscono il respingimento, diretto o indiretto, di richiedenti asilo. Tale obbligo deve essere rispettato da tutte le autorità che svolgono attività di controllo alle frontiere, di prevenzione e di contrasto all’immigrazione clandestina, anche se svolte in ambito extraterritoriale». Ogni persona intercettata e salvata in mare deve essere condotta in un «luogo sicuro» che deve essere interpretato non solo in conformità al diritto internazionale marittimo ma anche al diritto umanitario e dei rifugiati. Anche in presenza di accordi con i paesi terzi ai quali vengono rinviati gli immigrati , gli Stati di invio non sono esentati dal rispettare gli obblighi assunti in ambito internazionale, e si rendono corresponsabili di eventuali violazioni perpetrate nei confronti delle persone respinte.
Con i respingimenti verso la Libia da parte della marina militare e della guardia di finanza sono state violate le Convenzioni del diritto del mare e gli aggiornamenti più recenti sottoscritti dall’Italia, ma non dal governo maltese, al quale pure si riconosce la responsabilità di coordinamento delle azioni di salvataggio nelle acque internazionali del Canale di Sicilia. Un vero e proprio trucco, un gioco delle parti tra il governo maltese e quello italiano, per evitare gravissime responsabilità internazionali, ma anche l’esito politico-diplomatico di una contraddizione esplosa nei suoi risvolti più tragici nel caso della nave PINAR alcuni mesi fa, una sottile questione diplomatica che consente di delegare le principali responsabilità delle azioni di salvataggio ad un governo, quello maltese, che non riconosce gli aggiornamenti più recenti delle convenzioni internazionali a salvaguardia della vita umana in mare. Tanto alla fine, il «lavoro sporco» di respingimento in Libia lo fa la marina militare o la guardia di finanza italiane. E su questo Malta plaude. Ma l’Italia, almeno, non può sottrarsi agli obblighi di salvataggio e di accoglienza che le derivano dalle Convenzioni internazionali, se non dalle leggi interne e dalla Costituzione repubblicana.
Come si rileva nella denuncia dell’ASGI, «dal primo luglio 2006 le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare del maggio 2004, sicuramente vincolanti almeno per l’Italia», stabiliscono che «il Governo responsabile per la regione SAR in cui sono stati recuperati i sopravvissuti è responsabile di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito» e definiscono tale luogo come «una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è minacciata; dove le necessità umane primarie [cibo, alloggio, servizi medici] possono essere soddisfatte e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale».
Le Linee guida del 2004, quindi, chiariscono che la nave che presta soccorso costituisce temporaneamente un luogo sicuro, ma che essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative. Tali linee guida sottolineano la necessità di evitare lo sbarco di richiedenti asilo e rifugiati, soccorsi in mare, in quei territori ove la vita e la loro libertà sarebbero minacciate. Per cui per determinare se sia un «luogo sicuro» per i richiedenti asilo occorre effettuare le opportune verifiche tenendo conto delle circostanze particolari di ogni singolo caso.
L’Italia, che ha ratificato i suddetti strumenti internazionali incluso le Linee Guida, dopo aver soccorso i migranti in mare avrebbe dovuto condurli in un luogo sicuro. Tale luogo è da individuare nell’Italia essendo il Paese più vicino e sicuro dove i migranti sarebbero stati protetti da gravi violazioni dei diritti umani e avrebbero potuto, nel caso, accedere alla protezione internazionale in attuazione del diritto italiano, comunitario e internazionale.
Certamente i migranti non potevano, e non possono, essere consegnati alle autorità libiche, sia perché non vi è certezza che da quel Paese provenissero, sia perché il territorio libico non può ritenersi «luogo sicuro», in quanto non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, né le principali Convenzioni in materia di diritti umani, e numerosi sono i rapporti internazionali che denunciano le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate nei confronti dei migranti.
Come già sottolineato dall’ASGI, «le operazioni di intercettazione e di salvataggio e di trasbordo di migranti in acque internazionali su unità navali italiane hanno radicato la giurisdizione italiana ai sensi dell’art. 92 dell’UNCLOS e dell’art. 4 del codice penale italiano e negli stessi termini si esprimono gli artt. 2, 3, 4 del codice della navigazione. Essendo le unità navali «territorio italiano», le autorità italiane erano/sono tenute ad applicare il diritto nazionale, comunitario ed internazionale».
Tenuto conto che la Libia non può essere considerato Paese terzo sicuro, le Autorità italiane avrebbero dovuto rispettare l’obbligo del divieto di refoulement di cui all’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. La norma ha carattere assoluto ed inderogabile e deve essere applicata sia sul territorio dello Stato parte sia in ambito extraterritoriale.
Tale principio ha ormai travalicato i confini del diritto internazionale dei rifugiati nel quale è nato, ampliando la propria portata a tutto il diritto internazionale dei diritti umani; in tal senso si deve ricordare l’art. 3
1 della Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti inumani e degradanti che dispone «Nessuno Stato Parte espelle, respinge né estrada una persona verso un altro Stato qualora vi siano serie ragioni di credere che in tale Stato essa rischia di essere sottoposta a tortura».
Anche l’interpretazione dell’art. 7 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, data dal Comitato per i Diritti Umani con il General Comment n. 20: Art. 7 [10/03/1992], si muove nella medesima ottica, affermando al par. 9 che «Gli Stati parte non devono esporre gli individui al pericolo di tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti al ritorno in un altro Paese, a seguito della loro estradizione, espulsione o refoulement».
Si evidenzia come, a livello regionale, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con orientamento ormai costante, ha ravvisato, nel caso di rinvio di persone verso Paesi ove sarebbero esposte al rischio reale di subire torture o trattamenti disumani o degradanti, una violazione dell’art. 3 della CEDU si vedano, tra le altre, le sent. Soering v. UK, Chahal v. UK, Ahmed v. Austria].
Con i respingimenti dei migranti verso la Libia, attuati nei giorni scorsi, l’Italia ha violato l’art. 3 Cedu nella misura in cui li ha consegnati alle autorità di un Paese senza verificare e senza avere elementi di esclusione che in quel Paese fossero sottoposti a trattamenti inumani e degradanti e/o a rischio per la loro stessa vita, nonostante la notorietà delle condizioni in cui sono tenuti i migranti in Libia [in transito o lì arrivati come paese di destinazione] nei campi/prigioni e da dove spesso sono fatti partire senza mezzi né risorse verso il deserto, incontro a morte sicura.
Ma nel caso dei respingimenti verso la Libia ricorre una violazione ancora più grave del diritto internazionale. L’art. 4 del Protocollo n. 4 alla Cedu vieta le espulsioni collettive di stranieri.Nella denuncia presentata dall’Asgi, si rileva che «tale divieto è stato palesemente violato, nonostante l’assenza di formali provvedimenti amministrativi [non] adottati dall’Italia ai sensi dell’art. 10 e dell’art. 13 del D.Lgs. 286/98 come successivamente si evidenzierà». Anche il comportamento materiale dello Stato, infatti, va ritenuto rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4, avendo come effetto concreto il rinvio in massa degli stranieri [secondo il Ministro dell’interno varie centinaia] verso un Paese asserito come di provenienza.
Va ricordato che secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani sono espulsioni collettive tutte quelle misure che obbligano gli stranieri «in quanto gruppo» a lasciare un Paese.
Se il divieto vale per le espulsioni disposte con formale provvedimento amministrativo, non può non valere parimenti quando l’effetto sia raggiunto attraverso un mero comportamento di fatto attuato dalle autorità pubbliche.
L’art. 63 co. 1 del Trattato delle Comunità europee dispone che la legislazione comunitaria adottata dagli Stati membri dell’UE deve essere applicata in conformità alla Convenzione di Ginevra e ad altri trattati internazionali.
Con il trasbordo di centinaia di migranti su navi militari italiane e la loro riconsegna alle autorità libiche l’Italia ha violato il Regolamento CE n. 562/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 marzo 2006 [che istituisce un Codice comune relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone] in quanto:
• Al punto n. 7 del Preambolo si stabilisce che «Le verifiche di frontiera dovrebbero essere effettuate nel pieno rispetto della dignità umana. Il controllo di frontiera dovrebbe essere eseguito in modo professionale rispettoso ed essere proporzionato agli obiettivi perseguiti»;
Tanto nei respingimenti effettuati direttamente a Tripoli da parte di unità della marina militare lo scorso maggio, quanto adesso nel caso dei respingimenti effettuati con l’intervento di unità navali della Guardia di finanza, come si osserva nella denuncia presentata dall’ASGI, «non è stata affatto rispettata la dignità dei migranti, consegnati alle autorità libiche nonostante non siano cittadini di quel Paese e nel quale sono certamente sottoposti a trattamenti inumani e degradanti per la sola condizione di migranti irregolari, come è oramai pacificamente accertato in numerosi Rapporti internazionali».
• Al punto 20 del medesimo Preambolo si afferma che «Il presente regolamento rispetta i diritti fondamentali ed osserva i principi riconosciuti, in particolare, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Dovrebbe essere attuato nel rispetto degli obblighi degli Stati membri in materia di protezione internazionale e di non respingimento».
Non vi è stato rispetto di nessuno dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dal diritto comunitario così come dalla Carta europea, in quanto a nessuno dei migranti intercettati e rinviati in Libia è stato consentito l’accesso alla procedura per la protezione internazionale, così come non è stato accertato che in Libia fossero rispettati il diritto alla dignità umana [art. 1], alla integrità della persona [art 2], a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti [art. 4], alla libertà e alla sicurezza [art. 6], al rispetto delle vita privata e familiare [art. 7], all’asilo politico [art. 18].
• L’art. 3 lettera b) del Regolamento stabilisce che «esso si applica a chiunque attraversi le frontiere interne o esterne di uno Stato membro senza pregiudizio dei diritti dei rifugiati e di coloro che richiedono protezione internazionale in particolare per quanto concerne il non respingimento».
• L’art. 7 del Regol. 562/2006 prevede che «chiunque attraversi la frontiera è sottoposto a una verifica minima che consenta di stabilirne l’identità dietro esibizione dei documenti di viaggio».
Non risulta che nel caso dei respingimenti in acque internazionali le autorità italiane abbiano verificato se e di quali documenti erano in possesso i migranti portati in Libia o se siano stati in altro modo identificati. In questo modo l’Italia ha omesso di compiere le verifiche minime necessarie per conoscere i Paesi di origine dei migranti e dunque per avere elementi di certezza che il rinvio dalla Libia a quei Paesi non avrebbe comportato la violazione dei diritti umani.
• L’art. 13 del Regol. 562/2006 consente agli Stati di respingere gli stranieri che non soddisfino i requisiti per l’ingresso ma si cura di prevedere che «Ciò non pregiudica l’applicazione dei disposizioni particolari relative al diritto d’asilo e alla protezione internazionale» e comunque stabilisce che «Il respingimento può essere disposto solo con un provvedimento motivato che ne indichi le ragioni precise. Il provvedimento è adottato da un’autorità competente secondo la legislazione nazionale ed è di applicazione immediata». Un successivo capoverso precisa, inoltre, che «le persone respinte hanno il diritto di presentare ricorso. I ricorsi sono disciplinati conformemente alla legislazione nazionale».
Anche nell’ultimo caso di respingimento effettuato ieri in acque internazionali da una unità della Guardia di finanza, non risulta che sia stato emesso nessun provvedimento scritto e motivato, ciò che comporta una violazione della disposizione del Regolamento comunitario.
L’ASGI ricorda, in proposito, «che i Regolamenti comunitari hanno piena efficacia normativa nel territorio dello Stato e ovunque esso eserciti poteri riconducibili alla propria potestà di imperio e alla propria sfera giurisdizionale. L’Italia pur avendo accolto i migranti sulle sue unità navali – considerate «estensioni galleggianti del territorio italiano» – non ha consentito loro di accedere a qualsivoglia procedura per il riconoscimento del diritto di asilo in base ai decreti legislativi di recepimento della normativa comunitaria e dell’art. 10 comma 3 della Costituzione italiana.
Il mancato accesso alla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale ha comportato la violazione della Direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione ai cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta.L’art. 21 paragrafo 1 obbliga gli Stati membri a rispettare il principio di non refoulement in accordo con gli obblighi internazionali.
E’ stata violata altresì la Direttiva 2005/85/CE Norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, recepita dal decreto legislativo n. 25 così come modificato del decreto legislativo n. 159.
Il punto 13 del Preambolo della Direttiva prevede il diritto del richiedente asilo ad avere «un accesso effettivo alle procedure», di disporre di «sufficienti garanzie procedurali per far valere i propri diritti in ciascuna fase della procedura» e, non da ultimo, il “diritto di rimanere in attesa della decisione dell’autorità accertante». Si tratta di principi e diritti consacrati in specifici articoli della direttiva, tra cui gli artt. 6 e 7 e, non da ultimo, dall’art. 35, che fa obbligo ad ogni Stato membro di autorizzare comunque il richiedente asilo a rimanere nella zona di frontiera ai fini dell’ ammissione alla procedura per il riconoscimento dell’asilo.
Come osserva l’ASGI nel suo esposto denuncia, «se i migranti versavano in stato di pericolo di vita era dovere dell’Italia soccorrerli e dunque trasbordarli sulle unità navali militari italiane. Avere effettivamente accolto sulle navi italiane i migranti equivale a riconoscere che questi versavano effettivamente in stato di pericolo, in quanto in assenza di esso ci si troverebbe di fronte ad un comportamento illecito delle autorità navali che avrebbero attuato un illegittima coazione fisica dei migranti trasbordandoli, contro la loro volontà o con artifizi e raggiri, dalle loro imbarcazioni alle navi militari. Già si è detto che le navi italiane sono territorio italiano [art. 4 c.p.; artt. 2,3 e 4 del Codice della navigazione; art. 92 UNCLOS]. In attuazione della legislazione nazionale, in territorio italiano doveva essere verificata la specifica posizione delle persone e assicurata la loro ammissione alla procedura di asilo in presenza di apposita richiesta».
Nessuno degli accordi tra Italia e Libia legittima operazioni di riconsegna alla Libia dei migranti intercettati in acque internazionali in quanto l’accordo del dicembre 2007 prevede il pattugliamento congiunto da eseguire al limite delle acque costiere libiche al fine di rimandare indietro le imbarcazioni carichi di migranti in fuga dalla Libia. Ad ogni modo detti Accordi non potrebbero mai consentire alle autorità italiane di violare le norme costituzionali, le norme comunitarie e quelle internazionali.
L’operazione di riconsegna dei naufraghi alle unità libiche è stata affidata questa volta ad una imbarcazione della Guardia di Finanza, anche se di solito gli interventi di questo tipo, almeno negli ultimi due mesi, sono stati condotti da mezzi della Marina Militare. Non sappiamo se questa scelta corrisponda ad una reazione di dignità da parte dei vertici della Marina Militare oppure ad un normale avvicendamento nelle operazioni di «contrasto dell’immigrazione clandestina».
Ma vorremmo almeno chiedere alla magistratura italiana, per quanto tempo ancora questi abusi potranno compiersi senza che un solo giudice penale avverta il dovere di intervenire per sanzionare violazioni che mettono l’intero governo italiano e la catena di comando che gestisce il contrasto a mare dell’immigrazione irregolare sul banco degli imputati.
Ricordiamo tutti le parole accorate di alcuni militari della marina che pochi mesi fa lamentavano il lavoro sporco che era stato loro imposto riconsegnando richiedenti asilo, donne, bambini indifesi ai loro carcerieri libici. Tutti hanno visto lo scempio dei corpi dei migranti riconsegnati, sulla banchina del porto di Tripoli, dalle nostre unità militari al ministero dell’interno libico. L’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati ha denunciato le percosse e la sottrazione di beni inflitte ai migranti sulle nostre unità militari prima della riconsegna alla polizia libica.
Al di là delle norme di diritto interno e dei trattati internazionali, per le quali ci saranno indagini e processi, a livello internazionale soprattutto, e assai probabili condanne, vorremmo proprio chiedere agli uomini ed ai comandanti della guardia di finanza come riusciranno a raccontare ai loro figli quello che stanno facendo nelle acque del Canale di Sicilia contro i migranti in fuga dalla Libia. A tutti, ai cittadini italiani così impauriti dall’«emergenza immigrazione», a coloro che sostengono l’operato del ministro Maroni, e che si compiacciono per i suoi «successi storici», vorremmo chiedere ancora di quanto si sentono più “sicuri” dopo che alcune decine o centinaia di migranti in fuga sono stati riconsegnati dalle nostre forze armate ai loro aguzzini.

Fonte: http://www.carta.org/campagne/migranti/18188