Programma Educazione alla Pace presentato da Tindara Ignazzitto - Consulta per la Pace di Palermo

Programma di Educazione alla Pace - TPRF

lunedì 4 giugno 2007

Midhina aveva un sogno e il suo sogno era la luna: 2 racconti di Caterina Famularo

Cuori clandestini di Caterina Famularo

[con questo racconto, Caterina Famularo ha vinto il 3° Premio della sezione Racconti del PREMIO INTERNAZIONALE "VOCI DEL SANTA ISABEL" dedicato al Mare, e il 1° Premio assoluto al CONCORSO INTERNAZIONALE DI NARRATIVA "SCIASCIA" bandito dall'Accademia Nazionale di Lettere, Arti e Scienze "Ruggero II di Sicilia". Il suo racconto è stato pubblicato anche sul sito http://www.leluminarie.it/?p=1463]


Lampedusa,
ultima figlia di un’Italia
che, spesso, ti dimentica
e figlia illegittima di un’Africa
alla quale assomigli.
I tuoi occhi hanno rivisto
gli occhi dei tuoi fratelli africani
e li hanno riconosciuti…
La tua terra è sempre terra di passaggio
per uomini senza patria.
Siamo tutti clandestini…


Non c’è attimo in cui l’Africa non si ricordi di noi.
Primavera. Estate. Autunno. Inverno. Non c’è stagione dell’anno in cui non sia possibile avvertire, in ogni cosa, visibile o invisibile, questa simbiosi d’amore e d’affinità tra terre vicine ma lontane, consanguinee ma estranee: una meravigliosa dìade di complicità tra istinto materno e bisogno di protezione, tra lontananza consapevole e distacco indesiderato.
Un’isola è come un bambino abbandonato in un’immensa culla d’acqua. Un’isola è di tutti e non è di nessuno: è di chi la scopre, di chi l’adotta o la vizia; ogni intenzione, però, è sempre passeggera e, alla fine, come tutti i bambini abbandonati, anche l’isola finisce nell’orfanotrofio della solitudine. L’assenza d’ogni madre-terra è incolmabile e insostituibile, ma la sua presenza, pur illusoria e distante, è percepibile ovunque.
Lampedusa è la figlia diletta dell’Africa: è l’orgoglio imbarazzante e sofferente della madre che ne riconosce la straordinaria somiglianza ma non può fare altro che amarla segretamente e riempirla di doni.
Non c’è attimo in cui l’Africa non si ricordi di noi e non occorre che sia festa per aprire magicamente lo scrigno della natura e regalarci il prezioso oro del suo sole, che luccica eternamente tra il topazio e il turchese del mare.
E quando l’oro diventa opaco, come semplice pietra ambrata che si confonde con la terra selvaggia, l’Africa si rammarica di non poterci donare il suo intenso calore solare e umano. Vanitose e capricciose, le perle di nuvole n’approfittano: fingendo di corteggiare il sole, adornano il cielo di una fitta collana, fino a sedurre anche i più timidi raggi di luce. Il cielo cupo diventa lo sguardo triste e offuscato dell’Africa e il vento incessante, tipico di questi giorni soffocanti è il suo respiro affannoso e amoroso che si appiccica sulla pelle, quasi a voler consolare la nostra lontananza e a compensare la carenza d’affetto e contatto. Lo scirocco è il canto malinconico dell’animo africano, che si diffonde per tutta l’isola, accompagnato da violini striduli di voci ed eco: filastrocche quotidiane di pescatori, stanchi, che rientrano nel porto, e versi insistenti di gabbiani che intrecciano danze sul mare, sfiorando l’acqua, quasi invitandola a ballare con il vento.
Era un tardo pomeriggio di scirocco e anche la mia anima vibrava, come una canna che si piega al primo vento della sera. La primavera dipingeva il quadro pittoresco del cielo con i pastelli dei fiori di pesco, di timo, delle margherite dorate, dei cardi spinosi e dei mandorli ancora acerbi, sfumando o contrastando le infinite tonalità del tramonto. Il mare era increspato, come cartapesta modellata disordinatamente.
La sabbia si alzava, lentamente, depositandosi sulle palpebre e imprimendo sul cuore l’ennesimo sigillo d’amore e d’attenzione dell’Africa.
Quel tardo pomeriggio, la clessidra del tempo era veloce, troppo veloce, ed io avrei voluto capovolgerla e riempirla di tutta quella sabbia che mi circondava: almeno per rivivere le piccole gioie della vita o per cancellare i grandi dolori, per recuperare tutto ciò che avevo perduto. Ma la clessidra del tempo non si può rovesciare e noi non possiamo fare altro che osservare il flusso dei granelli di sabbia che scende, ora lentamente, quando l’attesa ci sembra eterna, ora velocemente, quando vorremmo che il tempo si fermasse. E il tempo, quel tardo pomeriggio, sembrava essersi fermato proprio su quella spiaggia, dove mi recavo, spesso, a parlare con il mare, con il vento, con Dio, per poi ricevere solo risposte sibilline dalle conchiglie, raccolte e appoggiate ad un orecchio.
Intanto, i ricordi diventavano sempre più insistenti, come quelle onde impetuose che arrivavano, improvvisamente, sulla riva e poi si asciugavano, ritornando a mescolarsi con il resto del mare e lasciandoci l’illusione di averci portato, anche per un attimo, qualcosa che ci apparteneva.
Onda dopo onda. Acqua su acqua. L’illusione diventava delusione: tutto ciò che è perduto non ritorna e tutto finisce tra i fondali dei rimpianti.
Anche le onde della ragione s’infrangevano contro lo scoglio testardo del cuore, che le rifiutava e le rimandava indietro.
Era il tardo pomeriggio in cui il cuore e la ragione lottavano e tra i due nemici non poteva certo esserci pace: solo il dubbio è una conveniente e fugace tregua ma, prima o poi, l’uno avrebbe sconfitto l’altro, inevitabilmente. Non sapevo cosa desiderare: che vincesse il cuore o la ragione; forse il cuore per continuare ad amare, forse la ragione per smettere di soffrire.
Ogni mio sguardo costruiva una contemplazione o una meditazione, e le mie osservazioni erano come ragni che tessevano lunghe ed intense tele d’emozioni, per intrappolare, come insetti, altre illusioni: ma erano speranze o rassegnazione? Non volevo che quello fosse il tardo pomeriggio della rassegnazione, e il vento caldo dello scirocco mi suggeriva speranze.
Il mare era sempre increspato, come cartapesta disegnata disordinatamente ma, questa volta, la mano invisibile di un artista aveva creato una distrazione al mio sguardo e ai miei pensieri: una microscopica barca, bianca e azzurra, con una striscia centrale gialla, rossa e verde e con una strana incisione, in lingua araba, sul legno invecchiato, si dondolava sull’altalena dell’acqua, ora affiorando ora scomparendo sotto le lunghe onde.
Anche il mio cuore cominciava a sobbalzare, per l’urto della paura e della curiosità, soprattutto quando l’ultima onda aveva scaraventato, con impeto, la barca sulla riva, a pochi passi dai miei occhi increduli.
Qualcosa respirava. Qualcosa sospirava. Qualcosa gemeva.
Chi era quella persona rannicchiata su se stessa, fino a sembrare un fagotto? A chi appartenevano quei respiri, quei sospiri e quei lamenti?
Non sapevo se fuggire, senza voltarmi indietro, o se avvicinarmi con cautela.
Intanto, qualcosa si muoveva.
Il capo, coperto da un fazzoletto con disegni di palme e piantagioni di tabacco, era chinato sulle braccia, incrociate sopra le ginocchia, e si sollevava con timore, lasciando intravedere due occhi tristi e smarriti, misteriosi come la notte: erano gli occhi di Midhina.
Lo scirocco continuava a soffiare come un ventaglio che sventola incoraggiamenti ad ogni stato d’animo preoccupante e sulle ali di quel vento volavano le parole dei pescatori, che tiravano le reti gridando: “Sbarcu ci fu! Navutru sbarcu di clandestini! Dici ca c’era pure na carusa e una ponnu truvari pirchì i scafisti a lassaru a mari supra na varca nica quantu na bagnarola e poi scapparu co peschereccio. A varcuzza era china, tutti scafazzati e abbuccaru a mari. Pi fortuna i sarvaru tutti ma a carusa appi a ristari supra a varcuzza e un si trova! Mischini! Rischiari a vita cu stu malutempu!”.
(Sbarco ci fu! Un altro sbarco di clandestini. Dicono ci sia pure una bambina e non la possono trovare perché gli scafisti l’hanno lasciata in mare su una barca piccola quanto una bacinella e poi sono fuggiti con il peschereccio. La barchetta era piena, tutti ammucchiati e sono caduti in mare. Per fortuna li hanno salvati tutti ma la bambina sarà ancora sulla barca e non si trova. Poveri! Rischiare la vita con questo brutto tempo!).
Non era difficile capire chi era Midhina e da dove arrivava.
Midhina era il più gran dono dell’Africa e ne portava i colori, i sapori, gli aromi e gli umori: aveva i capelli scuri, come il cacao amaro appena setacciato; la pelle, leggermente più chiara e addolcita dalla tenera età, come il cacao zuccherato; i denti come il pregiato avorio; le labbra morbide e lisce come olio d’arachide; gli occhi come giganteschi chicchi di caffè, macinati dalla sofferenza e dalla disperazione. I piedi erano scalzi, come la povertà più nuda. Uno scialle di lana, carico d’umidità, le ricopriva inutilmente le minute spalle. Il vento faceva aderire a quella corporatura esile una veste lunga e larga, bagnata e resa trasparente dall’acqua, lasciando intravedere o immaginare le prime dolci forme femminili.
La natura le aveva regalato un insolito e grosso neo, a forma di goccia, sotto l’occhio sinistro, quasi come previsione delle sue lacrime eterne, della sua sventura e del suo triste destino.
Midhina aveva un sogno e il suo sogno era la luna.
E voleva la luna per chiederle la libertà. Era convinta che nelle notti di plenilunio, la luna piena si trasformasse in una sfera magica per esaudire i desideri degli uomini tristi e soli. In quelle notti, cioè, dovevi lanciare un sassolino o un petalo di fiore proprio nel punto dove il volto della luna si rifletteva sullo specchio ondoso del mare.
Se vedevi un delfino guizzare dall’acqua e recuperare quel sassolino o quel petalo significava che la luna aveva ascoltato le tue richieste e voleva essere generosa con te. Se, invece, il sassolino rimaneva nel fondo del mare o il petalo in superficie, dovevi aspettare un’altra luna piena.
Midhina aveva raccolto tutti i sassi della sua terra e aveva strappato i petali a tutti i fiori dei campi, per chiedere alla luna piena di trasformare il suo cuore prigioniero in cuore libero. Ma, ogni volta, nessun delfino veniva a raccogliere i suoi sogni. Forse in Africa i delfini non esistevano. Forse la luna non ascoltava i desideri dei bambini.
Le avevano fatto credere che in Italia era possibile chiedere in prestito la luna alla Notte e nasconderla, almeno per un giorno, finché la Notte non tornava a cercarla. Solo così Midhina avrebbe potuto implorarla di ricordarsi di lei.
La luna, però, è figlia della notte, e quale madre non ama una figlia così bella e se la lascia rapire? E, poi, è giusto che la libertà sia un sogno? Non dovrebbe essere un diritto di tutti?
In quel tardo pomeriggio, che aveva già dato il benvenuto alla sera, io ero schiava dei miei pensieri, dell’amore, dei ricordi, dei rimpianti. Ero schiava del cuore e della ragione, che mi tenevano chiusa in una torre di sofferenza, inquietudine e confusione. Ma ero libera. Libera di pensare, d’amare, di ricordare, di rimpiangere. Libera di usare il cuore o la ragione. Libera di uscire dalla torre o di rimanerci.
Midhina era solo libera di illudersi che qualcuno non si accorgesse di lei, quella sera. Era solo libera di sperare che qualcuno non la trovasse. Conosceva bene la sua sorte e quella degli altri fratelli africani: o essere rispediti in patria, come lettere rimandate al mittente, o vivere, per sempre, come clandestini.
In quell’attimo anch’io mi sentivo una clandestina: mi nascondevo dentro me stessa e non volevo farmi trovare dalla vergogna che mi perseguitava, per aver sprecato troppo tempo a piangere per piccole sofferenze, per continue lamentele e insoddisfazioni; per essere rimasta dentro quella torre che mi permetteva di vedere il resto del mondo solo attraverso le sbarre della superficialità. Fuori da quella torre c’erano persone che soffrivano più di me.
Midhina era una di quelle persone ma… quella sera, qualcuno si accorse di lei, qualcuno la trovò…
Midhina aveva un sogno e il suo sogno era la luna.
Un giorno, la luna si ricordò di lei, per sbaglio o per pietà, ma in cambio le chiese tutto ciò che le era più caro: Midhina ha venduto i suoi capelli come il cacao amaro, la sua pelle come il cacao zuccherato, i denti come il pregiato avorio, le labbra morbide e lisce come olio d’arachide, gli occhi come chicchi di caffè. Midhina ha venduto il suo corpo, il suo cuore e la sua anima e continua a venderli, in cambio della libertà. Adesso è più schiava di prima. E’ schiava degli uomini.
Quando la vidi, per caso, in quella caotica città, in quello squallido quartiere di baby-prostitute, su quel maledetto marciapiede, pensai ad una terribile coincidenza della vita, ad un terribile scherzo del destino, ad una terribile somiglianza, ma quel grosso neo, a forma di lacrima, sotto l’occhio sinistro, tradì ogni mia illusione. Quella era la disperazione di Midhina. Non potevo sbagliarmi…
Anche oggi è un tardo pomeriggio di scirocco ed io sto aspettando che scenda la sera, per guardare in faccia la luna e rimproverarla di promettere sogni e verità per poi regalare solo delusioni e bugie. Anch’io, come Midhina, ho raccolto tutti i sassi della mia terra, per lanciarli proprio nel punto dove il volto della luna si riflette nel mare, ma su quest’isola ci sono pochi fiori e non voglio strappare petali per false speranze.
Se potessi esprimere un desiderio, in questa promettente sera di luna piena, chiederei la libertà di Midhina. A Lampedusa i delfini esistono.

Siamo tutti clandestini
in una terra che non è mai nostra.
Siamo tutti cuori clandestini
in cerca di una terra promessa.
Ma la terra promessa dov’è?
La terra promessa è solo dove c’è libertà.
E la libertà è solo dentro di noi:
dove niente o nessuno può permettersi di rubarcela.



Iridina e il Mare (Noi e gli altri) di Caterina Famularo

C'era una volta un raggio di sole che era innamorato di una goccia di pioggia. Un pomeriggio d’estate il cielo si oscurò e il sole fu costretto a rimanere nascosto dietro una nuvola. La pioggia cominciò a scendere, goccia dopo goccia.
Il raggio di sole, riconoscendo la goccia di cui era innamorato, decise di uscire allo scoperto e di manifestarle il suo amore.
Allora, la luce e la goccia di pioggia si abbracciarono e dal loro incontro nacque un meraviglioso arcobaleno chiamato Iridina.
Tutte le creature ammiravano quel fascio di strisce colorate e si complimentavano con il cielo che, avendola creata, non poteva essere obiettivo con lei e non poteva giudicare la sua bellezza.
Anche Iridina era curiosa di vedersi e di conoscere la propria immagine ma non aveva uno specchio e non sapeva come guardarsi.
Non vedeva i suoi sette colori così come si mostravano nel cielo, uno accanto all’altro, e non riusciva a capire di che colore fosse veramente la sua anima.
I sette colori si tenevano per mano ma spesso litigavano tra loro per cercare di convincere Iridina: “Sono io che ti rendo così bella, Iridina - esclamò l'indaco - quindi la tua anima deve per forza avere il mio colore”.
No, ti sbagli, sono io che coloro la tua immagine”- ribadì l’arancione.
Ma cosa state dicendo - gridò il rosso - sono io il colore più vivace”.
E così gli altri colori.
Iridina si stancò e volle sapere con certezza qual era il colore della sua anima.
Lei amava l’indaco ed era convinta che la sua anima fosse di quel colore ma senza uno specchio non poteva averne certezza.
Allora, decise di andare in giro per il mondo alla ricerca della sua vera identità finché un giorno incontrò un’onda del mare: “Iridina, cosa cerchi?” - le domandò incuriosita.
Rispose l’arcobaleno: “Non riesco a capire chi sono e come sono. Non ho uno specchio e non posso vedermi”.
Allora il mare rispose: “A cosa ti serve uno specchio? Non hai già deciso tu chi sei? Anche se tu avessi uno specchio vedresti solo la parte di te che vuoi vedere ma il resto rimarrebbe nascosto ai tuoi occhi. Così se sei convinta che il colore della tua anima sia l’indaco, vedrai la tua immagine di quel colore, se invece sei convinta che la tua anima sia arancione la vedrai così”.
Come posso fare, allora, per capire come sono veramente?” -disse Iridina, sconsolata.
Il mare le suggerì: “Noi siamo lo specchio degli altri e gli altri sono il nostro specchio. L’importante è guardare e lasciarsi guardare. E’ da questo sguardo reciproco che ognuno di noi si arricchisce. Lasciati guardare e vedrai come ti vedono gli altri”.
Domandò Iridina: “E se mi accorgessi che la mia anima non ha il colore indaco? O se scoprissi che non ha un solo colore? E se non mi piacessi così come veramente sono?”.
Il mare la rassicurò: “Non bisogna mai temere di mostrarsi agli altri così come siamo, con le nostre debolezze e le nostre paure. Specchiati pure negli altri e parla e chiedi ma lasciali anche parlare e rispondere. Accetta o rifiuta quello che hanno da dirti ma lascia che esprimano le loro opinioni. Incontrati o scontrati, se è necessario, ma rispetta sempre i pensieri che non sono uguali ai tuoi”.
Il mare la mise alla prova e la invitò a specchiarsi in lui.
Iridina si specchiò nell’acqua e rimase delusa. L’onda era in movimento e l’immagine dell’arcobaleno riflessa in quell’acqua appariva deformata.
No, non sono così” - si allarmò Iridina.
Allora il mare la rimproverò: ”Non ti ho forse detto di accettare e rispettare i punti di vista degli altri? E poi, io non ho affermato che sei così. Ti ho fatto vedere come tu appari ai miei occhi. Io sono in movimento e vedo la tua immagine contorta. Se ti specchi in me quando non sono agitato, ti vedrò diversamente. Controlla pure”.
Allora il mare chiese al vento di calmarsi per un istante.
Iridina si specchiò di nuovo nell’acqua e per riflesso guardò meglio se stessa: al posto di quell’immagine deformata vide un meraviglioso arcobaleno e scoprì che la sua anima aveva sette colori diversi.
A volte bisogna avere il coraggio di specchiarsi negli altri con il rischio o la piacevole sorpresa di scoprire colori o forme che non avevamo visto prima o che non sapevamo di avere.

Un grazie di cuore a Caterina Famularo per averci consentito di pubblicare i suoi racconti su questo BLOG. Caterina scrive anche poesie. Per leggerne alcune:

http://www.isoladellapoesia.com/poesie_autore.php?idaut=235

Ne incollo una, una soltanto, su Lampedusa:

I-solitudine

Chiome d’ebano
e aroma di cannella
su pelle ambrata
di roccia nuda
che seduce pure il cielo
tra Sicilia e Africa
scordata la mia terra.

Decantato amore
per quest’isola senza orgoglio
che ama pure chi l’ ignora
e in ciò le rassomiglia
il cuore mio.

Lampedusa,
s’io fossi vento
di te sarei geloso
d’averti mia
solo quando l’estate
non risveglia ancora i tuoi sensi
e solitudine ti getta sconsolata
tra gli occhi gonfi dell’onde.

Mia Lampedusa
di te conosce il vento
ogni palpito e sospiro
e tanto s’accomuna
il tuo destino al mio
che” un’isola nell’Isola” io sono
ora che inquietudine è il mio mare.

Caterina Famularo